Attualità

Case di ora, scuole di un tempo

Salendo verso la città si scorgono in ogni angolo gli edifici delle elementari "rurali" e dei borghi del primo '900 riconvertiti in abitazioni private

Sui tornanti del monte volterrano, da qualsiasi strada si decida di raggiungerlo, non è raro scorgere alcune delle tante piccole scuole rurali costruite nella prima metà del Novecento per facilitare l’alfabetizzazione dei bambini. L’istruzione era, infatti, avvertita come una necessità irrinunciabile per modernizzare il paese, per sottrarlo all’ignoranza e per restituire dignità ai cittadini, permettendo loro di raggiungere un’identità sociale e nazionale. Le elementari erano, dunque, disseminate sul territorio, sia nelle campagne sia nei borghi fuori le mura, e la loro presenza è la testimonianza di un periodo in cui, a causa delle condizioni delle strade e dei trasporti, “la Montagna era costretta ad andare da Maometto” per realizzare il piano di alfabetizzazione del popolo.

L’unificazione linguistica così iniziata è stata poi completata dalla diffusione della televisione negli anni Sessanta.

Complici i trasporti più agevoli e a disposizione di tutti e migliorate le infrastrutture, le strutture scolastiche sono state centralizzate e i vecchi edifici hanno subito un cambio di destinazione d’uso.

Adesso, infatti, queste piccole avanguardie del sapere, essenziali anche per la forma architettonica semolice, sono diventate case, villette o complessi condominiali. Ma racchiusa in loro è rimasta un’atmosfera che rimanda alla loro vecchia funzione. Sono state, infatti, per chi le ha frequentate, una risorsa importante, tanto da diventarne oggetto delle loro attenzioni e del loro ricordo pungente. Il poeta Renzo Pezzani (1898 – 1951), in una lirica del 1939, le racconta così:

Scuola di campagna

È fuori dal borgo due passi
di là del più fresco ruscello
recinta di muro e cancello
la piccola scuola di sassi.
Agnella staccata dal branco
col suono che al collo le han messo
richiama ogni bimbo al suo banco
nell’aula che odora di gesso.
C’è ancora la vecchia lavagna
con su l’alfabeto mal fatto:
lo scrisse un bambino distratto
dal verde di quella campagna.
E lei, che mi vide a sei anni,
c’è ancora. La voce un po’ fioca,
vestita d’identici panni,
la vecchia signora che gioca.
C’è ancora il vasetto d’argilla
che m’ebbe suo buon giardiniere;
è verde, fiorito di lilla,
e un bimbo gli porta da bere.
Il tempo passò senza lima
su queste memorie. Ritorno
lo stesso bambino d’un giorno
sereno, nell’aula di prima.
E in punta di piedi, discreto,
nell’ultimo banco mi metto
e canto, nel dolce coretto
dei bimbi, l’antico alfabeto.