Questo sito contribuisce alla audience di 
QUI quotidiano online.  
Percorso semplificato Aggiornato alle 14:15 METEO:VOLTERRA10°  QuiNews.net
Qui News volterra, Cronaca, Sport, Notizie Locali volterra
mercoledì 04 dicembre 2024

STORIE DELL'ALTRO SECOLO — il Blog di Marcella Bitozzi

Marcella Bitozzi

MARCELLA BITOZZI - Ex funzionario del Comune, con studi rivolti ai numeri, ho una sviscerata passione di scrivere fatti del mio paese e storie di gente che ci ha vissuto. E così, prima che anche l’ultima testimonianza possa andare perduta, mi sono decisa di parlare con le donne, con gli anziani, con coloro che erano bambini o adolescenti nel periodo bellico e fascista. Questo Blog lo dedico a mio padre, che ha vissuto il periodo della guerra, che è stato al fronte non in prima linea perché il suo mestiere di falegname gli aveva permesso di essere utilizzato per altre necessità.

"Raccoglieva le briciole con le dita bagnate"

di Marcella Bitozzi - lunedì 01 ottobre 2018 ore 16:01

Nazzareno Lattici

Nazzareno Lattici, ritornò a casa nel 1945, dopo anni di prigionia in un campo di concentramento in Siberia, ridotto a pelle e ossa, ricoperto di piaghe e con alcune parti del corpo congelate. 

E’ Marino, il fratello, ex dipendente comunale e residente ad Usigliano, che ci ha raccontato un pezzo della sua storia.

Nazzareno era nato a Filottrano (Ancona) il 1 settembre del 1922, e lì morì il 5 maggio del 1979. Babbo Giuseppe e mamma Palmina avevano messo al mondo ben 9 figli (6 maschi e 3 femmine), il maggiore morì in casa ad appena tre anni. Le braccia erano necessarie per mandare avanti il podere a mezzadria e le famiglie numerose erano una benedizione.

Nazzareno era il figlio maggiore, dopo il fratellino morto. La chiamata alle armi gli arrivò il 17 gennaio 1941, come risulta dal foglio matricolare. Quello era un inverno freddissimo, Marino si ricorda che in quei giorni la pioggia e la neve ghiacciavano istantaneamente appena toccavano terra e nelle strade si era formato uno spessore di alcuni centimetri di ghiaccio. Nazzareno doveva partire dalla stazione di Jesi, ma le strade erano impraticabili con qualunque mezzo. Decise di andare a parlare col maresciallo dei Carabinieri, ma il maresciallo non aveva soluzioni da dare a Nazzareno, perché se non fosse partito per le armi sarebbe stato dichiarato disertore e avrebbe rischiato la fucilazione.

Così Nazzareno partì prima dell’alba, a piedi, con le fasce di balla sulle scarpe, per raggiungere in orario la stazione che distava da casa sua ben 17 chilometri. Il buio, il freddo, la lunga camminata nella notte e poi il treno per il distretto di Ancona, dove ricevette l’incarico di soldato mitragliere di fanteria.

Il 16 ottobre 1942 Nazzareno fu trasferito in Russia, territorio dichiarato in “stato di guerra”, assegnato al secondo Battaglione, quinta compagnia del 82° Reggimento fanteria divisione Torino, partecipando alla campagna di guerra anno 1942. Nazzareno andò a far parte di uno dei due corpi di armata italiani che si congiunsero al CSRI, il corpo di spedizione italiano in Russia presente sul fronte orientale già dal 1941 con tre divisioni. Il CSIR e i due corpi di armata furono riuniti nell'8’ Armata Italiana in Russia ( ARMIR )

Durante la tragica ritirata sul Don, appena 15 giorni dopo il suo arrivo, esattamente il 1 novembre 1942, fu catturato, fatto prigioniero dall’esercito russo e deportato in un campo di concentramento in Siberia.

“Nessun addebito può essere elevato in merito alle circostanze di cattura e al comportamento tenuto dal soldato durante la prigionia” – recita così il foglio matricolare. La prigionia fu terribile, non più di 35 chicchi di granoturco e brodaglia della cottura, era tutto ciò che i prigionieri ricevevano ogni giorno per alimentarsi. Di notte la temperatura raggiungeva i meno 50 gradi e Nazzareno con i suoi compagni scavavano le buche nel terreno per cercare di sopravvivere a quel freddo pungente che arrivava fino alle ossa.

Rischiando la vita Nazzareno e gli altri avevano escogitato il sistema per aprire un varco al recinto di quel maledetto campo di concentramento, ma non per allontanarsi, non avrebbero saputo dove andare circondati com’erano da ghiaccio e neve; uscivano per raccogliere ciocchi di legna su cui stendersi sopra durante la notte , evitando così il contatto diretto con la terra gelida, e per racimolare qualcosa da mangiare quando le persone che abitavano intorno al campo potevano darglielo.

Anche se nemiche avevano compassione di questi poveri giovani, e Nazzareno lo disse esplicitamente" – racconta Marino – “devo la vita ad una di quelle famiglie”.

Durante la prigionia Nazzareno non poté mai contattare casa.

Qualche volta ai prigionieri veniva consentito di scrivere, intestando la busta con “Fronte russo”, e Nazzareno qualche volta aveva scritto alla famiglia, ma quelle lettere non erano mai arrivate e di lui non si era saputa mai nessuna notizia.

“Era un genio mio fratello – dice Marino – era creativo come nessuno, e prima di partire aveva costruito una radio con il compensato e un pezzettino di un cristallo speciale, da cui, attraverso una cuffia, poter ascoltare le notizie”. Era un modello di radio “galena”, molto rudimentale, che prendeva il nome proprio dal piccolo cristallo che captava le onde.

Nazzareno, racconta Marino, aveva anche studiato il modo di applicare una canna con più buchi per consentire l’ascolto a più persone contemporaneamente. “A guerra finita, da quella radio, ogni giorno, io e l’altro mio fratello piccolo - dice ancora Marino - ascoltavano il bollettino del rientro, sperando che un giorno o l’altro, quella voce, pronunciasse anche il nome di Nazzareno. Ma il nome di mio fratello non fu mai pronunciato e ogni giorno mamma era sempre più delusa”.

Palmina teneva questo apparecchio ben nascosto, era un oggetto preziosissimo, l’unico tramite con Nazzareno che si trovava lontano, chissà dove. Nonostante non fosse mai stato dichiarato morto, ma soltanto disperso, mamma Palmina un giorno decise di vestirsi di nero per portare il lutto a suo figlio, perché ormai aveva perso ogni speranza di rivederlo vivo.

Nazzareno tornò a Filottrano quando ormai la guerra era finita da un pezzo, il 5 dicembre 1945, con una parte del corpo congelato, con le piaghe, e ridotto in pelle e ossa. Tornò dalla Siberia dopo che i campi di concentramento erano stati liberati, percorrendo chilometri e chilometri a piedi o con mezzi di fortuna, senza cibo né soldi, ma ce l’aveva fatta.

“La nostra casa era in fondo ad una discesa – dice Marino – e dalle finestre vedevamo la via principale in alto, che si incrociava con quella che portava da noi. Una mattina, da una delle finestre, mia mamma Palmina scorse un uomo, magrissimo, un po’ barcollante, con un cappotto scuro lungo fino ai piedi, che piano piano dalla strada principale scendeva giù. Mia mamma lo guardava immobile e silenziosa perché quell’uomo assomigliava tanto ma tanto a suo figlio Nazzareno”.

Ci possiamo solo immaginare ciò che quella mamma ha provato in quei minuti: gioia, dolore, incredulità, paura di aver perso la testa. Ma quell’uomo era vero e si stava dirigendo proprio alla casa di Palmina e Giuseppe, e bussò alla porta. Era proprio lui, Nazzareno, quel figlio amato che Palmina credeva di aver perso per sempre.

La donna era sola in casa quando il figlio tornò, forse era un giorno di festa e tutti i familiari erano ad ascoltare la Santa Messa. Marino era piccolo, ma ha ancora impressa nella memoria l’immagine di quello strano cappotto indossato dal fratello. Scuro, doppio, tessuto stranamente con grossi fili di lana intrecciati, erano i cappotti forniti dall’esercito italiano come equipaggiamento invernale, ma che si dice fossero insufficienti per affrontare le temperature rigide della Russia.

Tornato dalla Siberia, Nazzareno taceva, taceva sempre, e per molti giorni nessuno potè sentire la sua voce. “Noi rispettavamo il suo silenzio – racconta Marino – ma un calcagno e il fondo vita congelati, le piaghe, e quel gesto di bagnarsi le dita per raccogliere le briciole di pane sul tavolino, erano assai più eloquenti di qualsiasi racconto. Poi un giorno, all’improvviso, mio fratello pronunciò una piccola frase, due, tre parole al massimo – dice ancora Marino- il ghiaccio era rotto, ma Nazzareno continuava a preferire il silenzio e a pronunciare solo pochissime parole quando non poteva farne a meno”.

E raccontò solo molte poche cose di ciò che aveva vissuto in guerra e in prigionia. Le atrocità della guerra non ce la fecero a rendere cattivo Nazzareno, ed una di quelle poche volte che confessò qualcosa, disse che non uccise mai nessuno, neanche quando avrebbe potuto farlo.

L’unica persona che avrebbe avuto il coraggio di uccidere, confessò il soldato, era sé stesso, se, tornando a casa , non avesse più ritrovato la sua famiglia. La guerra spesso stravolge, spesso costringe a cambiare, ma non sempre ce la fa.

Il Comune di Filottrano affidò a Nazzareno l’incarico di tenere in ordine qualche chilometro di strada. Non era un vero e proprio rapporto di lavoro, ma un riconoscimento al suo sacrificio in nome della Patria.

Nazzareno si sposò con una ragazza di Filottrano senza avere figli e riprese il suo lavoro di contadino nel piccolo podere di sua moglie. Quasi tutta la famiglia Lattici si trasferì in Toscana, ma lui preferì rimanere e morire nella sua terra, a Filottrano, una terra che chissà quante volte aveva sognato di rivedere quando nel gelo della Siberia, affamato e in mezzo a tante sofferenze, non poteva mai essere certo neanche di rivedere il domani.

Alle porte di Nikolaevka c’è un cippo dedicato ai soldati italiani caduti in russia. E’ situato presso una fossa comune. La battaglia di Nikolaevka fu combattuta il 26 gennaio 1943 e fu uno degli scontri più cruenti durante il ripiegamento delle forze dell'Asse dopo il crollo del fronte sul Don. In quella fossa si trovano i resti di tantissimi soldati che non ce l’hanno fatta a tornare, che sono morti per la patria in una terra straniera e ostile, proprio negli stessi luoghi dove Nazzareno viveva la sua terribile prigionia.

Giovani vite sconvolte da destini terribili, cattiverie a cui non potersi sottrarre, vissuti diversi ma accumunati da grandi atrocità. Questa è la guerra, da dimenticare o da ricordare, non si sa cosa sia più giusto, ma una cosa rende tutti d’accordo: che ciò che è stato non possa ripetersi mai più!

Marcella Bitozzi

______________

Un sentito ringraziamento al Centro documentale del Distretto Militare di Ancora, ed in particolare al Capo Centro tenente colonnello Stefano Scalabroni per la collaborazione e la disponibilità dimostrati nel reperimento delle notizie nonché per il rilascio del foglio matricolare del soldato Nazzareno Lattici.

Marcella Bitozzi

Articoli dal Blog “Storie dell'altro secolo” di Marcella Bitozzi