Riflettono fiori rossi
di Tito Barbini - venerdì 10 gennaio 2020 ore 22:44
Quello che provo a raccontare con il mio nuovo libro accadeva quasi un secolo fa. Ora, mentre sorvolo su questi ricordi, domina in me il pensiero di coglierne il senso per raccontare il presente di questa città. C’è un filo che unisce queste stagioni di Buenos Aires, così lontane tra loro. Oggi sono seduto su una sedia di bambù, chino a scrivere, su un tavolino coperto da un vetro che raccoglie i riflessi del sole estivo. Filtrano attraverso splendidi alberi dai fiori rossi.Sono gli alberi del ceibo, il fiore nazionale dell’Argentina, grappoli di fiori rossi vivaci che nascono cilindrici e sbocciano conici nelle piazze e nei viali di Baires.
Il vecchio cameriere claudicante mi porta il mio caffè cortado e il dulce de leche.Tutto è accompagnato da un bicchiere di acqua gelata. In Italia non accade quasi mai, l’acqua devi domandarla e ti guardano pure male. D’altronde non conosco altro luogo al mondo dove le librerie e i caffè siano così invitanti.«Ami questa terra?» mi chiede ogni volta, un amico che mi raggiunge a questo tavolo della “Cafetteria"nella Plazoneta della Boca.
Parliamo di tante cose, quando ci vediamo. Caffè cortado e medie lune piccoli cornetti che tuffiamo nel dulce di leche. Gli uccelli vengono a prelevare le briciole passando con disinvoltura dal nostro tavolo alla testa del generale che sta proprio davanti a noi, in sella al suo immenso cavallo di bronzo. Ci accompagna in sottofondo una melanconica musica argentina. Piove su di noi dall’interno del locale, pare la colonna sonora di un film di Bechis. Ogni tanto è interrotta da qualche cantautore italiano. Profumo di tango e di casa. O forse sarebbe meglio dire: profumo delle mie due case, su una sponda e sull’altra dell’oceano. Con questo mio amico mi vedo sempre quando mi fermo a Buenos Aires. È andato via e basta. Verso una terra sconfinata. Ecco quello che continuo a invidiare ai nostri italiani d’Argentina, il concetto di “sconfinato” così estraneo a tanti che rimangono a casa.
Viene legittimo il sospetto che valga la pena rischiare gli esiti della propria esistenza per la scommessa di terre infinite che valga la pena anche di essere orgogliosi della propria scelta, per aver desiderato un orizzonte. Forse sono considerazioni da romanzo di Conrad. Il fatto è che ho sempre amato chi è partito con minore o maggiore fatica, ho sempre subito forte il fascino di chi si è arrischiato nei luoghi più lontani della terra, arrabattando il suo nome mezzo così e mezzo così, facendosi capire, fa-cendosi rispettare e in definitiva amando quella nuova immensa casa, quasi sempre facendosi amare.
Sospetto che in questo modo abbia come cercato rifugio da sé stesso. Vai a sapere se è la strada giusta, godersi la sua magra pensione sorseggiando il mate in una periferia sperduta al limite della pampa.Forse si è semplicemente arreso, incapace di fare altri passi, incapace di andare avanti, almeno in Italia. Di ritrovare valori e soprattutto nuove relazioni. Cosa necessaria per vivere gli anni che rimangono, sfrondando tutto ciò che è inutile, inessenziale, persino dannoso. Un naufrago quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta ha solo due possibilità. L’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva. Oppure la fuga davanti alla tempesta con il vento in poppa e un mare bendisposto a lasciarti andare.Ci sono esuli così, esuli della propria anima, per così dire.
Così come ci sono viaggiatori che per quanto vadano lontano, cercano soltanto di fare i conti con sé stessi.Così quando penso a loro mi vien da chiedermi se anch’io avrei potuto fare la stessa scelta. Partire e non tornare, invece che partire per tornare sempre. E nel caso, sarebbe stata una fuga?Domanda complessa, che alimenta le mie perplessità. Certo in Argentina, così come in Cile, ho conosciuto una infinità di storie che mi hanno sedotto, molte tristi, altre piene di gioia e di speranza. Oppure: ho incontrato tanti che non hanno smarrito la memoria del passato, convinti che la memoria è tutto ciò che siamo.Questo amore, che è la sostanza delle storie che ho raccolto, dei libri che ho scritto. Si trattasse di Alberto Maria De Agostini, il missionario alla fine del mondo, oppure di Pasqualino Risposi, l’ultimo pirata della Patagonia.
Penso a tutto questo, mentre sono di nuovo all’inizio di una storia. Ancora una volta mi misuro con un groviglio di ricordi e amnesie che solo a Buenos Aires si potrà dipanare. E per raccontarla, questa storia, non mi basterà tendere l’orecchio per ascoltare la voce di Simon, il mio giovane anarchico.Ecco, forse proprio le caffetterie, quelle rimaste uguali a un tempo, possono trasmettere se non una spiegazione almeno un’atmosfera. Sono un sentimento e un luogo letterario – quindi reale e allo stesso tempo immaginario – che io immagino ancora abitato da scrittori di albe, poeti del tango, filosofi della malinconia. Julio Cortazar, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sabàto, Roberto Arlt, Josè Pablo Feinmann, Osvaldo Soriano, anche Leopoldo Marechal, che ho contribuito anch’io a far conoscere in Italia, portando al mio editore, Vallecchi, il testo in castigliano.
Tito Barbini