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Cultura martedì 27 settembre 2016 ore 06:30

Monte Voltraio e la gallina d’oro

Il monte Voltraio

Anche D’Annunzio narra la leggenda dei dodici pulcini dorati nascosti sul monte e della chioccia pronta a farsi trovare da una persona speciale



VOLTERRA — Ci sono storie che si tramandano di generazione in generazione fino a diventare parte integrante del tessuto cittadino e familiare. Come se, con gli anni e con la diffusione popolare, perdessero la loro realtà leggendaria trasformandosi in episodi realmente accaduti.

A Volterra, da sempre, si racconta che sul Monte Voltraio, in gergo Poggio alla Rocca, si trova nascosta una chioccia con dodici pulcini in oro massiccio pronta a farsi trovare da una persona speciale, carismatica almeno quanto Artù che, per volontà del destino, non solo trovò, ma seppe impugnare Excalibur, cosa impossibile per gli uomini comuni.

Secondo l’antica leggenda, la chioccia rappresenterebbe la confederazione etrusca e i dodici pulcini le città (tra cui anche Volterra) che la rappresentavano. Per questi motivi la stessa narrazione è presente anche in altre città della Toscana e del Lazio. Il racconto è così radicato da aver suggestionato anche Gabriele D’Annunzio che, nel suo romanzo Forse che si forse che no, ricorda la leggenda:

“Se tu mi canti ancóra, – disse la salvatichetta ponendo la punta delle sue forbici magiche all′orlo d′una carta vergine – ti fo la Chioccia d′oro coi suoi tredici pulcini, che è in fondo al Monte Voltraio ma nessuno l′ha mai veduta. Se no, più niente.

– Tirannella, tirannella,

fammi un′ala per volare,

ch′io m′involi da Volterra,

dalle Balze fino al mare!

Ma se l′ala non puoi fare,

fammi un altro incantamento

con le tue dita di fata,

per la pallida contrada

ch′io somigli ai dolci Morti,

fin che tu ti rammenti,

fin che io non mi scordi!

L′artefice puerile ancóra seguiva l′assonanza col lieve cenno del capo, ma era tutta intenta alla chioccia del Monte Voltraio, un poco aggrottando gli occhi che Vana aveva chiamati torvi, serrando la bocca broncia, tutta nell′ombra della capelliera ch′era sciolta e folta come quella d′un angelo del Melozzo, violetta come un penzolo d′uva rinaldesca. Sopra lei stormiva il Leccione al maestrale del pomeriggio, movendo la fronda cupa su le nove braccia nodose e rugose che si protendevano dal tronco integro. I nocchi, le giunture, le screpolature, le cicatrici delle potature e degli schianti, tutti i segni dell′alta età e della lunga guerra facevano venerando l′albero come lo stipite d′una gente indomita. Tanto pervicace era il suo vigore a traverso i secoli, che il suo fogliame appariva in rigoglio come quel d′un giovine lecceto maremmano sul cocuzzolo d′un poggio; ma la sua corteccia era ferrigna come il più vecchio masso etrusco esposto a settentrione e il suo aspetto civico faceva pensare che al suo pedano potesse arrotar le zanne solo il cinghiale del Popolo, sporgente su la mensola rozza dalla Torre del Podestà.”

Viola Luti
© Riproduzione riservata


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