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martedì 19 marzo 2024

PAGINE ALLEGRE — il Blog di Gianni Micheli

Gianni Micheli

Diplomato in clarinetto e laureato in Lettere, da sempre insegue molteplici passioni, dalla scena alla scuola, dalla scrivania alla carta stampata, coniugando il piacere della scrittura con le emozioni del confronto con il pubblico, nei panni di attore, musicista, ricercatore, drammaturgo e regista. Dal 2009 è iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Toscana riversando nella scrittura del quotidiano le trame di un desiderio di comunicazione in cerca dell’umanità dell’oggi, ispirata dalle doti dell’intelligenza, della sensibilità e della ricerca della felicità immateriale.

​Teoria eliocentrica del dolore

di Gianni Micheli - domenica 30 aprile 2023 ore 08:00

Hai presente il dolore? Quella cosa che ti porti dentro e che sai che c’è, che ti fa massa? Quella cosa che se puoi la rappresenti come un sasso, anche se già lo hanno fatto, ché di sassi è pieno il mondo? Hai presente? Anch’io ed io, sì, il dolore, certe volte, lo penso come un sasso, duro, peso, che sta lì, dentro, come in uno stagno. Lo fai anche tu? Un dolore per nulla fisico, s’intende, o solo un poco, come un riflesso. Un dolore che è addoloramento.

Il dolore in quello stagno, dove un po’ ci va da solo, forse ci rotola (sarà un sasso rotondo), e un po’ ce lo spingi, a volte con la forza, pare scompaia. Anzi: ci sono volte, proprio, che non lo senti. Sarà per questo che lo butti lì, perché non lo senti? “Ma quanto sarà profondo questo stagno?” pensi, e sei contento, e ce lo butti, e quando ce lo butti sei contento perché proprio non lo senti. Non sempre. Ma poi riemerge. Sembrava fondo ma lui riemerge. Eppure è un sasso, è duro, è peso. Perché riemerge? Perché, quando riemerge, se vuoi fa più dolore?

Te lo dico io e può sembrare una rivoluzione ma come quando Copernico difese il sistema eliocentrico va detto che questo stagno, pure, è eliocentrico. Questo io addolorato che lo governa è eliocentrico. Non è quello stagno piatto che ti viene facile immaginare perché solo così li hai visti, gli stagni, le paludi. Piatto e profondo il più possibile. Non è quella cosa del conscio e dell’inconscio che non sai dove va a finire ma sai che non ci arriverai mai, perlomeno senza una mano, un aiuto, uno scivolare nell’ipnosi da sdraiato.

Questo stagno, dove finisce il sasso del dolore, non riuscirai a crederci ma è come un sole, è rotondo, circoscritto, e può essere pure profondo quanto ti pare o quanto vuole lui ma di là, dall’altra parte, c’è un’altra riva. Sempre. E così tu, che sei pervasivo perché il tuo io è molto più grande di quello che sembra, non è la Terra che gira intorno al Sole ma l’Universo intero rispetto al tuo dolore, quando spingi il sasso nel fondo dello stagno lo fai perché sparisca ma poi, a ben pensarci, nello stesso tempo lo spingi dall’altra parte. E tu sei lì, che lo vedi scomparire dentro, e pensi che starai meglio, ma sei anche lì, che lo vedi emergere, perché tanto l’hai spinto che è sì andato a fondo ma, alla fine, ha trovato un’altra riva da dove venir fuori. E senti che stai ancora male. Forse di più.

Lo so. La teoria eliocentrica del dolore non è una spiegazione che dà sollievo. Che toglie peso. Però, se vuoi, è utile a farti capire che quel dolore, quel sasso che hai nella testa, nel petto, nel cuore - chissà dov’è! - non serve nemmeno buttarlo a fondo, spingerlo a fondo in un fondo che non vedi e che non sai dove va a finire, perché anche questo non serve a niente. Il fondo non c’è. Il fondo è un’altra riva. Il dolore torna. E allora conviene tirarlo fuori, metterselo davanti e farci quattro chiacchiere. Conviverci. Dargli pure un nome, se vuoi.

Il mio dolore, io, lo chiamo Albert. Il mio dolore più presente. Come Albert Einstein perché anche il mio dolore è riuscito a trovare equazioni impensate, alla sua permanenza, al suo essere su questo mondo, al suo rapporto con le cose e al rapporto delle cose stesse fra loro, che mi danno l’idea del folle e/o del genio. Se ci parlo, con Albert, lui è più tranquillo. Ammessa questa teoria eliocentrica del dolore rinuncia perfino a far da sole: si fa pianeta, si fa asteroide. Sempre terra rimane, sempre sasso, sempre peso da portare sulle spalle o sul petto o sul cuore o dove vuoi ma perde l’acqua e anche l’acqua, quando immagini uno stagno, ha un suo peso specifico che porta giù il sorriso. Perché il sorriso, ahimè, una sua teoria eliocentrica non ce l’ha. Il sorriso è appeso alla gravità. Il sorriso, abbandonato, cade. Ma anche qui c’è da dire che, come la mela di Newton, finché forza avversa non lo taglia resta appeso a un ramo a sfidare il vento e il cielo.

[fonte immagine: Di painter from Brockhaus and Efron Encyclopedic Dictionary - reproduction from DVD http://www.iddk.ru/ru/cdrom/73147.html, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7237528]

Gianni Micheli

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