De mente
di Marco Celati - sabato 18 maggio 2019 ore 11:33
Alla zia paterna e allo zio materno, che l’Alzheimer se li prese
Aveva paura di morire. Ma era anche stanco della vita, gira gira non ne aveva ricavato granché. La pensione, i guai, le malattie, le pasticche deprimenti, l’indigenza, la casa, perfino l’amore. La vita gli aveva rotto parecchio i coglioni. E tutto il lavoro, tutto l’amore, tutto il dolore del mondo. Non sapeva più che fare di se’, qual era il suo significato. A un certo punto ti senti un vecchio signore indegno e tutto precipita.
Nemmeno sopportava più l’asimmetria degli eventi, delle cose. I quadri storti, appesi alle pareti. Era più forte di lui, dovunque capitasse, anche nell’ambulatorio medico, doveva raddrizzarli, come si dovrebbe fare per i torti. Poi cominciò a sbagliare le date delle riunioni, degli incontri. Peggio ancora prese a confondere i giorni della settimana. E, dopo, le parole: sia leggerle che scriverle. Volarono via dalla sua testa. Di molte cose conosceva il concetto, ma non il nome. Poi nemmeno più il concetto. A seguire, questo successe anche con le persone. Le associazioni tra figure e nomi, tra sostanza e forma, tra significato e linguaggio, sfumarono fino a perdersi.
Come si chiamavano le cose e che cos’erano? Come si chiamavano le persone e chi erano? Riaffioravano talora volti e ricordi, come in una nebbia che, a tratti, si dirada. E la realtà era ormai un tutt’uno con la fantasia, il presente con il passato. Sarebbe stato anche bello, ma era farneticante o confinato nel silenzio della mente e della parola. Nell’afasia e nella paralisi. Del resto, aveva un senso la vita?
Venivano persone, spingevano la sua carrozzella. Dicevano parole come babbo, figli, donne, pronunciavano dei nomi, forse i loro. Estranei. Tutti quanti estranei. Nemmeno uno che conoscesse veniva a trovarlo. Amico, forse amico era la parola. Non doveva averne avuti. Doveva essere stato solo. Non se ne ricordava più. Talora ritornavano in mente delle frasi, che conosceva. Una diceva “se vuoi essere felice, comincia”. Evidentemente doveva essere stato tardi per lui. Non che fosse infelice, semplicemente non lo sapeva. E un’altra: “a volte si vince, a volte si perde e a volte piove”. In quella “città dello sconforto” che “o piove o tira vento o suona a morto” -un’altra frase che ricordava- pioveva spesso. Lo vedeva dalla finestra quando la pioggia picchiettava ai vetri. E l’umidità entrava nelle ossa, quando lo portavano fuori, sotto il loggiato o sulla terrazza e a lui restava la tristezza negli occhi.
Non era casa sua, una villa, c’erano piante e alberi. Si vedevano campi, giù dalla collina. Era almeno la sua città, quella? O un’altra? C’erano palazzi grigi e lontano, dal terrazzo, si intravedeva, una striscia che dava sul niente. Sembrava liquida, la parola era “mare” o “cielo”? Si innervosiva per la confusione che aveva in testa e della conseguente impotenza verbale. Non provava gioia ne’ dolore. Non capiva che distinzione ci fosse tra le cose. Non ne afferrava il senso. Il loro svolgimento. Era giorno, era notte, ma che giorno era e che notte? E cos’era il tempo? Da quanto era così? Quanto mancava ancora? Un giorno gli sembrò di essere in villeggiatura, come quando c’andava, da giovane: di là dalla strada c’era la spiaggia e davanti, il mare. E tutto era immobile e silenzio. Esser vivi vuol dire avere coscienza di sé.
Marco Celati
Pontedera, 25 Febbraio 2019
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“Se vuoi essere felice, comincia ad essere felice” è una frase di Tolstoj. “A volte si vince, a volte si perde e a volte piove” è dal film “Bull Durham - Un gioco a tre mani” con Kevin Costner. “Città dello sconforto: o piove o tira vento o suona a morto” è un vecchio detto pontederese.
Marco Celati