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venerdì 13 dicembre 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

​La colpa - Memorie del commissario

di Marco Celati - mercoledì 24 gennaio 2024 ore 08:00

Vivere senza orrore di sé, alla moda del tempo, oppure sentirsi sopraffatto dal senso di colpa per la vita e i suoi errori? Questo si chiedeva da un po’, senza trovare risposta. C’erano ragioni per l’uno o l’altro dei termini in questione, per l’orrore di sé e per i sensi di colpa? Sì c’erano. Lo sapeva, lo sentiva. A volte provava a fingere a se stesso, convincendosi di essere stato migliore, per auto assolversi. Ma alla fine non ci riusciva. Non ne era capace. Tutti abbiamo qualcosa che non dovremmo aver fatto, una tenebra dentro che vorremmo rimuovere. E anche pensare così era già metterla su un piano comprensivo e giustificativo: se tutti siamo questo groviglio irrisolto di male e di bene, è meno rilevante il mio addebito personale, rientra nell’opaca normalità. Ma non va bene, non funziona così, diceva, è di me che si sta parlando, non della fratellanza universale. Senza nulla togliere al suo significato, la fraternità andrebbe difesa e applicata, piuttosto che farsene alibi o scudo.

Dice, è il peccato originale, sarebbe questa l’origine delle nostre colpe. Un peccato di disubbidienza, la conoscenza come peccato, la cacciata dal paradiso terrestre? Il lavoro come fatica, il parto come dolore! Ma vogliamo scherzare? Dopo questa tragica premessa, il sacrificio della croce e del Cristo, la morte di Dio e la sua resurrezione sono i misteri della fede che assolvono e sublimano la colpa. Almeno per chi crede: sia che si rassegni a credere, sia che si affidi alla speranza di credere. Però si chiedeva se, anche per i credenti, questi presupposti fossero causa oppure effetto di tutto. Se crediamo per paura della vita o per paura della morte. L’assolutismo fanatico lo spaventava. E le ragioni della vita, del bene travolto dal male, continuavano a sfuggirgli. Comunque, grazie a Dio, credente non era.

Eppure non possiamo non dirci cristiani. Ed è anche suggestiva la credenza islamica dei nomi di Allah. Sarebbero 99, secondo il Corano: Il Misericordioso, Il Compassionevole, Il Sovrano, Il Santo, La Pace e tutti gli altri attributi della divinità. Sono 99 e non 100 perché Dio, dice, ama il dispari. Invece secondo alcuni ordini sufi, le confraternite religiose musulmane, il Grande Nome, il centesimo, ci sarebbe, ma solo per i più elevati. Ignoto alla gente comune e questo è giusto perché il mondo è piccolo e la gente mormora e allora addio mistero! Ecco, è bella questa cosa: l’aldilà, la Jannah, il giardino dell’Eden, non per le vergini promesse ai terroristi suicidi del Jihad, ma per conoscere il nome misterioso di Dio. Come il Paradiso non è per i crociati, ma per i crocifissi. Per i poveri cristi.

Comunque alla fine, dice, la colpa morì fanciulla, ma anche questo è vero e non è vero. La vergogna, poi, per aferesi e per orrore, origina la gogna: non ci piace tanto la giustizia, quanto giustiziare. Linciare, possibilmente. Ferocemente. L’ingiustizia è profonda, altissima l’invidia sociale. La colpa o è impunita o non ammette riabilitazione, non c’è gusto. Certo, dipende da che colpa, ma, in genere, gli pareva fosse così.

In fondo dobbiamo concedere che di luce e di ombra abbiamo bisogno. La luce risalta sull’oscurità, ma non c’è corpo senza ombra. E allora pensava, forse dobbiamo attraversare l’oscurità per risorgere alla luce? Non lo sapeva, ma certo non possiamo dimenticare la nostra ombra, essa ci segue ovunque andiamo, è l’effetto, la corrispondenza che diamo alla luce. La sua proiezione. “Suul ker”, seppellire l’ombra, in lingua wolof. Non si può seppellire l’ombra, cantava Ndiaga Mbaye, un musicista filosofo senegalese. E un proverbio africano dice “nell’ombra non si vedono le strisce della zebra”, che sembra un po’ come diciamo noi, “di notte tutti i gatti sono bigi”. Ognuno ha il suo bestiario. Ma chissà che il detto africano non sottintenda qualcos’altro, quanto alle palesi differenze, rispetto al nostro che sa più di sciatta indifferenza. Forse di luce e di ombra siamo fatti e di luce e ombra abbiamo bisogno. O abbiamo comunque bisogno di comprenderlo. A volte pensava, se un Dio esiste è l’uomo la sua ombra sulla Terra. E allora gli veniva in mente il verso di una poesia: “pensa che ogni estremo di mali, un bene annuncia”. Chi l’aveva scritto? Non lo ricordava più, la memoria cominciava ad abbandonarlo a se stesso. Ogni estremo di mali: e di questo, in effetti, si trattava. Se annunciasse un bene, difficile dirlo.

Si trovava in una saletta di attesa, aveva già consegnato cellulare e documenti, tutto quanto era stato controllato all’ingresso dal piantone. Anche il libro che portava. La legge è uguale per tutti, commissario, gli aveva detto. Certo, aveva risposto. Poi tre volte i cancelli si erano aperti e richiusi alle sue spalle, che faceva sempre una certa impressione. Calogero era rimasto in macchina nel parcheggio. Commissà, a me certi posti mettono ansia, lo sapete, se non è per ragioni di lavoro preferisco evitare, scusate. Il fido Calò! Tutti quegli anni di servizio insieme e in certi momenti dal tu ritornava al voi, di passata memoria. L’età c’era a giustificarlo, pochissimo tempo ancora e lo aspettavano la pensione, i suoi nipoti… E i suoi campi: un lascito del padre, un retaggio dell’amata “Sicilia Saudita”, come, con affetto, chiamava la sua terra natale. Ma siete sicuro, commissà, che c’andate a fare? Non lo so, Calò, non lo so, visitare la colpa, il dolore; te colpe non ne hai? Certo: ho sbagliato a potare gli ulivi e quest’anno ho perso il raccolto! Scherzo, commissario, lo sapete. Calogero! Sempre capace di riportare le cose sul concreto, in maniera gioviale e bonaria. Se che nomina sunt consequentia rerum si estendesse anche ai cognomi, Pontedera sarebbe una città fortunata, almeno quanto alle Forze dell’Ordine: aveva Pace in Polizia, Stella nei Carabinieri e Paradiso alla Finanza. Pensare che invece, quando, ancora relativamente giovane, fu promosso commissario di Pontedera, i suoi colleghi -tutta gente di un sud più solare- gli recapitarono un biglietto di accoglienza che così recitava: “Benvenuto nel paese di scontento/ a Pontedera, città dello sconforto/ o piove o tira vento/ o sona a morto”. Pare lo ripetesse sempre il Vicesindaco Remorini. Bei tempi!

Carcere Don Bosco, anzi Casa Circondariale di Pisa, istituto di reclusione, che sempre carcere era. Posti regolamentari 197, totale detenuti 265, il 60% circa stranieri. Tre, quattro per cella. Polizia penitenziaria, effettivi 189, previsti 221. Due palestre, due biblioteche, un locale di culto, un campo sportivo. Il commissario era in una saletta per i colloqui del settore femminile, 29 recluse, e aspettava.

Si era ripassato i dati, non era cambiato molto da quando, con il contributo degli amministratori locali, avevano costruito e inaugurato il campo sportivo con il fondo sintetico, giocando una partita contro i detenuti. Aveva fornito un assist vincente al Sindaco di Pisa e rimediato, nel senso di subìto, un fallo con entrata a scivolone e conseguente abrasione lungo la gamba destra, al limite del reato penale. L’incontro alla fine era stato fatto pareggiare dall’arbitro con un rigore assegnato alla squadra del Don Bosco, regalato a Sofri. Ma tanto non si giocava mica con spirito agonistico! Era per solidarietà.

Nella stanza entrarono tre donne: una guardia carceraria, che rimase sulla porta, una reclusa, che il commissario, non senza apprensione, riconobbe. Magra, non appariscente, ma ben curata compatibilmente alla situazione, capelli lunghi, scuri. Era accompagnata dalla psicoterapeuta che aveva parlato qualche giorno addietro con lui. Brevi cenni di saluto e la dottoressa ricordò al visitatore che quell’incontro faceva parte di un percorso riabilitativo di reinserimento e che li avrebbe lasciati a parlare per un’ora circa. Dopodiché uscì dalla saletta insieme alla guardia che disse, sono qui accanto, bussi alla porta a colloquio ultimato.

⁃ Buongiorno Vera.

⁃ Buongiorno commissario, è venuto a parlare con me, la ringrazio.

⁃ Come sta?

⁃ Come si sta qui, però bene.

⁃ La dottoressa, mi ha detto che è lei che ha accettato di parlare con me.

⁃ Fa parte del percorso di riabilitazione, dicono che potrei uscire prima per buona condotta.

⁃ Perché io?

⁃ È l’autorità, rappresenta la legge, vogliono che mi confronti anche con questo; lei mi interrogò per il mio arresto, saranno venti anni fa, ricorda?

⁃ Ricordo, ricordo, furono più i Carabinieri a fare luce sui delitti, ma ricordo.

⁃ E comunque non ci sono molte persone che accettano di parlare con me: Medea, la strega. Lei non mi trattò così male, continuò a darmi del lei, come fa ora. Qui non ci sono cellulari, ma radio carcere mi dice cosa scrive la gente di me: mi vorrebbero rinchiusa a vita, morta, appesa a testa in giù…

⁃ Con le compagne di carcere ha avuto problemi?

⁃ All’inizio, specie le madri, poi il tempo passa ed è sempre uguale, il rancore si placa, non ci si capisce, ma si condivide la condizione di rinchiuse. Sa che abbiamo fatto anche una sfilata, in carcere, dopo un corso di formazione?

⁃ L’ho saputo, ne ha parlato la stampa…

⁃ Già, la stampa, il mostro sbattuto in prima pagina!

⁃ Bè, lei, non era innocente…

⁃ Io sono colpevole e sono stata condannata. Pago la mia colpa, basta.

⁃ Quindi sente la sua colpa? Riesce a sopportarla?

⁃ La mia colpa mi segue e mi seguirà sempre. Lei non ha colpe commissario?

⁃ Ne ho, non così gravi, ma ne ho anch’io. O forse è qualcosa che mi porto dentro perché ho passato la vita a ricercare e interrogare il male sotto forma di reati, delitti e alla fine ho contratto un senso di colpa, una responsabilità per il dolore, per il male di cui, seppur con il bene, siamo comunque impastati.

⁃ Non so se capisco, ma forse è per questo che mi ha fatto visita, osservare la colpevolezza da vicino?

⁃ Può darsi, ma non se ne offenda, la prego.

Scese il silenzio. Fu un attimo o forse qualcosa di più, il commissario non saprebbe dirlo. Stava ripensando alla vicenda terribile che gravava su Vera. Vera Montesi, una donna poco più che trentenne allo svolgersi dei fatti. A Pontedera, un’operaia che lavorava allo smistamento lungo il nastro trasportatore dei rifiuti di carta della Geofor si imbatté in un involto strano e si sentì mancare. Era il corpo di un neonato. Qualcuno evidentemente l’aveva messo in un cassonetto ed era finito lì. Era il 15 Febbraio del 2001, San Faustino, riporta il calendario. La città era scossa. San Faustino è il patrono di Pontedera, anche se si festeggia il secondo giovedì di ottobre. Questa coincidenza suggerì il nome del bambino, fu aggiunto Angelo, perché i bambini sono innocenti e i bambini morti, angeli. E così Angelo Faustino. Furono il Sindaco e il Proposto a dargli quel doppio nome, interpretando il senso di pietà e commozione di tutti. Non si ricordava più chi dei due avesse proposto un nome o l’altro. Fede e laicità si incontrarono, forse si scambiarono i compiti. Una Messa fu celebrata in un Duomo stracolmo. Partirono le indagini fra pregiudizi e supposizioni: una madre, una prostituta, una coppia di stranieri, la violenza di un uomo? Ma per un anno brancolammo nel buio. Nel gennaio del 2002 arrivò una segnalazione dall’Ospedale di Terni: con i sintomi di un’emorragia post partum, insieme al compagno, originario del capoluogo umbro, si era presentata una donna che però negava di aver partorito. I medici prelevarono parti della placenta e segnalarono il caso alla Procura. L’esame del Dna rivelò la relazione tra i due episodi. Soprattutto i Carabinieri si occuparono della conclusione delle indagini. Vera Montesi fu arrestata nell’aprile del 2003 con l’accusa di duplice omicidio. Il corpo del secondo neonato non fu mai trovato. E La donna fu condannata all’ergastolo, pena ridotta in appello a 16 anni. Anche il suo compagno fu condannato, ma successivamente assolto. Dimostrò di non essersi accorto dello stato interessante della donna -così come il suo datore di lavoro per la verità- e di non sapere nulla della sorte dei due neonati. Un amore distratto e un buon avvocato: uscì di carcere dopo due anni. La coppia aveva una casa a Pontedera e una figlia che, affidata ad una sorella, Vera non potrà più vedere, se non con l’assistente sociale. Vera e il suo compagno non si frequenteranno più. Nessuno vuole l’amore.

⁃ Perché, Vera?

⁃ Non desideravo più avere figli, non l’avevo voluto.

⁃ Ci sono metodi che la legge consente.

⁃ Ne provavo vergogna e una figlia l’avevo già.

⁃ Lo sa che un grande poeta sostiene che l’imprevisto è la sola speranza?

⁃ Ha avuto figli il poeta?

⁃ No.

⁃ Lei è un buon padre?

⁃ Non lo so.

⁃ Ma lei, Vera, ha coscienza di ciò che ha commesso?

⁃ Ho ucciso un figlio.

⁃ Due.

⁃ Ho avuto una vita che non volevo. L’ho portata come un peso. Dentro di me, nella carne, nel corpo. Ed ora è il peso che porto. La mia condanna. Avanti commissario, mi giudichi anche lei!

⁃ No, io non giudico, Vera, non è il mio mestiere. Io, per quanto posso, indago sui reati, i crimini, mi oppongo alle malefatte, al male, ma non sta a me giudicare, condannare o assolvere. Lo fanno i magistrati. Lo farà Dio, se c’è un Dio. Lei crede?

⁃ Non lo so.

⁃ Nemmeno io.

⁃ Se esco per buona condotta, cambierò città e vita. Rifarsi una vita…

⁃ Glielo auguro, Vera, lo faccia.

⁃ Lei crede che undici anni di carcere siano pochi per me? Tanti lo penseranno, lo so.

⁃ Non sta a me dirlo, le istituzioni preposte lo decideranno. La detenzione deve riabilitare e spero che sia possibile, anche per il suo caso, per il delitto commesso.

⁃ Il mio terribile caso.

⁃ Il più estremo dei mali. Le ho portato un libro, è un bel romanzo, lo legga se trova tempo e voglia, s’intitola “La macchia umana”, è di uno scrittore americano, Philip Roth.

⁃ Qui il tempo non manca, la voglia magari… Di che parla?

⁃ È una storia complicata, se gliela racconto non vale, le rovino ogni sorpresa, ce ne sono nel racconto e pure alcune analogie.

⁃ Tipo?

⁃ L’autore scrive, e speriamo non sia vero, che noi siamo macchiati, portiamo il segno dell’impurità, della crudeltà, dell'abuso, dell'errore. E lo fa dire a una donna, Faunia, che ha avuto due figli e un’altra storia terribile, che però non le rivelo.

⁃ Proprio adatto a me: leggero…

⁃ Non c’è niente di leggero, Vera, nella sua vita, come nella mia, come nelle vite di tutti. C’è del male e del bene, in una proporzione che noi decidiamo o che capita. Ci sono felicità e tristezza e vivere, acconsentire alla vita. Condurla al meglio, con i mezzi a nostra disposizione: “ho fatto il meglio che potevo con quello che avevo” lo disse Philip Roth, quando smise di scrivere, e l’aveva detto Joe Louis, il pugile.

⁃ Un pugile!

⁃ Un pugile afroamericano, Campione del Popolo e del Mondo. Le confesso una cosa, che non ho ancora detto a nessuno: fra un po’ andrò in pensione e me ne voglio andare via. Lontano. Da tutti e da tutto. Anche da questo male. Cambiare. Un altro mondo, un’altra vita, su qualche isola in mezzo al mare, al largo dell’Atlantico. A Capo Verde! È un sogno, ma forse un giorno lo farò davvero. La saluto, Vera, mi raccomando…

⁃ Commissario, scusi se mi permetto, ma perché intanto non cambia cognome?

⁃ Favati? Lo so: ce l’ho dalla nascita, ormai ci sono vissuto.

⁃ Faccia buon viaggio.

⁃ Anche lei.

Bussò alla porta. Entrarono la guardia e la psicologa, ricondussero in cella Vera. Il commissario uscì dal carcere, portandosi dentro un peso e una speranza, anche se non sapeva dire come erano ripartiti e per chi, quel peso e quella speranza. Forse si sconta, ma non si riscatta una colpa. E occorre il nostro amore a chi non ne ha dato o avuto. Ogni Due Novembre, per la celebrazione dei defunti, i rappresentanti delle Istituzioni e delle Forze dell’Ordine, al mattino, si recano presso il Cimitero della Misericordia di Pontedera a rendere omaggio alla tomba del Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, il più autorevole cittadino pontederese. È tradizione. Dopo la deposizione della corona di alloro e i discorsi nella cappella di famiglia del Capo dello Stato, il Sindaco e le autorità si spostano lì vicino, nel terreno del camposanto, presso una piccola sepoltura che non manca mai di fiori e qualche pupazzetto. Mani amorevoli la curano. I rappresentanti della comunità si raccolgono. Commemorano in silenzio una vita che non è stata, la vita che non ha avuto. L’amore. È la tomba di Angelo Faustino.

Marco Celati

Pontedera, Gennaio 2024

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P.S. L’immagine che accompagna il testo è tratta dalla copertina del libro “La macchia umana”, un regalo di mio fratello Carlo, lui è appassionato lettore di Roth, e non solo. Condividiamo due impegni gravosi: la passione per la scrittura e per la Fiorentina, intesa come squadra. Lui è più bravo. “Ogni estremo di mali, un bene annuncia” l’ha scritto Saba e “l’imprevisto è la sola speranza”, Montale. Siamo alle solite.

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati