Gracias a la vida
di Marco Celati - lunedì 25 dicembre 2023 ore 08:00
La notte, la pioggia che lava la mente, giardino d’inverno, palazzi, palazzi, una finestra si accende e si spenge. Anima vagula, blandula, tremula, anima mundi, natura del mondo, ombra della Terra o di Dio, vacilli. Ballatetta d’amore e tristezze, dove vai, dove porti, che porti? Se chiudo gli occhi vi vedo, immagino, sento: chi siete, cosa muove la mente, che ricordi, che fole? Memorie, memorie. Qui dove scrivo, martellano gli acufeni del silenzio, come fossero fruscii di pensieri. Qui dove vivo, nel vuoto della notte che piove e il vento accompagna le nubi, il cielo stellato se n’esce e un quarto di luna. In un quarto di casa. Ogni cosa si forma e si tiene, si consuma e si perde, si trasforma e diviene. Così tu, così noi, così io che a notte scrivo, dove sei, dove siete, dove sono, chi sono, è un sogno la vita? Un lungo sonno morire? E aver più niente da darvi, da dire se non che la notte, la pioggia che lava la mente, giardino d’inverno, palazzi, finestra, anima tremula, vento, canzone d’amore e tristezze, luna storta e cielo stellato.
Con questi pensieri sparsi, che si era appuntato sulle note, il commissario Favati, al secolo Nedo, andò a coricarsi, dopo essersi trattenuto a lungo nella notte inoltrata. Si ritrovava dopo tanto tempo quest’animo di poeta da strapazzo, in versi prosastici e dubitosi, fra citazioni cercate, prese in prestito qua e là. Chi era? Dov’era? All’apparenza semplice rispondere: ex commissario di polizia, migrato in pensione a Capo Verde, isola di San Vincenzo, Mindelo. Un piccolo appartamento in affitto sul porto. Meno tasse, ma alla fine nemmeno. Meno ricordi, ma alla fine nemmeno. Un altro presente, ma alla fine nemmeno. Ascoltava “Jardin d’hiver” dalla voce suadente di Henri Salvador che pare l’abbia registrata già molto anziano. Non posso più aspettarti, gli anni passano. C’è ancora vita, oltre il tempo trascorso? Sembrava una canzone del posto, il ritmo e le parole ricordavano morna e malinconie, più lente forse, ma aprivano allo stesso modo il cuore. Qui sulle isole l’inverno non era freddo, ma stanotte pioveva, che era un dono della Terra o di Dio.
Gli mancava Dores, la sua compagna, se era giusto dire sua, se era giusto dire compagna. Gli mancavano le sue citazioni di Montale studiato in Italia: la famiglia era di portoghesi benestanti, se l’erano potuto permettere. Erano tre giorni che non si faceva viva e tre giorni erano tanti. Troppi per lui. Forse era questo il perché di pensieri e canzone, del giardino d’inverno, nella notte d’inverno che piove.
E poi quel maledetto vizio di non tenere un cellulare! Si opponeva citando Montale, “altro comfort fa per noi ora, altro sconforto”. Ma era l’Arno a Rovezzano, il 1971, rispondevo, un altro mondo! Un mondo più giusto, controbatteva lei, riservato e senza telefoni cellulari. E io che le dicevo, non si possono fare paragoni, non è vero. Insomma non c’era verso di convincerla, né di sapere dov’era. Fosse stata in pericolo!? È allora che scatta l’istinto bastardo del poliziotto. O meglio, l’uomo civile che alberga in me sostiene non si fa, il poliziotto invece dice, controlla e, peggio ancora, l’innamorato pretende di sapere. Così l’uomo civile è messo in minoranza dagli altri due. E quindi vado e mi apposto.
Nel quartiere residenziale di Mindelo, zona Alto Miramar, l’Hotel Colonial offriva bella mostra di sé, ricordando nella facciata il classico stile della colonizzazione portoghese. La famiglia di Dores vi abitava da generazioni, e questo facevano: erano storici e benestanti albergatori. Metà mattina, la pioggia della notte aveva fatto posto a un sole pallido, ma caldo e il vento era frizzante. Il commissario si accomodò su una panchina e, con una disinvoltura poliziesca, che si vedeva da lontano un miglio, si mise a sfogliare “A Semana”, il quotidiano di Capo Verde, intanto che sbirciava l’ingresso dell’Hotel.
Un’ora, il giornale l’aveva letto quasi tutto ormai, e stava perdendo vista, pazienza e speranza. Ma la costanza investigativa, ancorché indebita e riprovevole, fu premiata. Dores uscì dall’albergo, teneva una donna a braccetto, una donna più giovane, la baciò con affetto e la salutò, restando a guardarla, mentre si allontanava lungo la strada. Poi si girò distrattamente, guardandosi in giro, forse per un sesto senso, come si sentisse osservata. Le donne lo sanno. E infatti lo vide, occhieggiante dietro il giornale come un idiota, e si avvicinò spedita. Molto spedita e si capiva che per lui non sarebbe stata cosa. Gli si sedette accanto sulla panchina, malcelando l’irritazione.
⁃ Commissario!!! Che ci fai qui? Sei di passaggio o di posta?
⁃ Ciao Dores. Niente, ero in giro e mi sono fermato a leggere.
⁃ Proprio qui davanti! Ma guarda caso…
⁃ Scusa, lo so, non si fa, ma è qualche giorno… Stavo in pensiero…
⁃ In pensiero per chi? Per me o per te?
Il commissario sentiva che era partita persa, e fece quello che si fa in questi casi, prima di capitolare: controbattere.
⁃ Dores, non è che devo sapere qualcosa?
⁃ Sì, molte cose, tipo?
⁃ Non so, ho visto che baciavi quella donna…
⁃ E allora?
⁃ Lo so, me l’hai già detto, che l’amore non è a senso unico e non dipende dal genere: si ama chi si ama, uomini, donne…
⁃ Cretini…
⁃ Ecco.
⁃ È mia sorella, imbecille!
⁃ Cretino era meglio…
⁃ Quello, quando te lo meriti. Ma ti devi impegnare. Facciamo due passi. Offrimi un caffè.
Un caffè! Forse era salvo, forse gliel’avrebbe perdonata. Quella cazzata, quella gelosia. Dores, un caffè! Volentieri.
La Pastelaria Morabeza non era lontano da lì, lungo l’Avenida Baltazar Lopes da Silva, che comunque si faceva prima a arrivarci che a dire il nome della strada. Presero dei pasticcini con la cannella, lei un caffè, il commissario un’aranciata perché era di bocca dolce e troppi caffè gl’inquietavano il cuore. Dores gli disse che in questi giorni era stata dietro alla sorellina, la chiamava così, anche se era già una donna matura. Era preoccupata per lei, non sapeva cosa avesse, ma qualcosa c’era che non andava. Appariva sempre cupa, triste, chiusa, che non era il suo carattere. Ma non si confidava e, se richiesta, cambiava discorso. Aveva sempre avuto un modo fatale di farlo con gli interlocutori e ne aveva avuti, libera com’era. Girava la testa altrove e se ne usciva con frasi tipo, ah gli Alisei, ho la sabbia nei capelli! Oppure, il mare infuriava stanotte, non riuscivo a dormire. E si capiva che la conversazione era finita, che bisognava andare. Rafaela era così. Un tipo da “Gracias a la vida”, la sua canzone preferita. Una canzone di altri tempi. Ultimamente la cantava con più trasporto e struggimento di sempre.
⁃ E comunque sei un imbecille a seguirmi.
⁃ L’ho sempre fatto, quando mi lasciavi di nascosto i biglietti con le frasi di Montale sulla panchina dove mi addormentavo la sera.
⁃ Ma allora era diverso, c’era un motivo, qualcosa da scoprire. Ora mi sento pedinata e spiata. Non mi va.
⁃ Va bene.
⁃ Non va bene!
⁃ Allora va male.
⁃ Non fare il furbo, che si fa, hai fame?
⁃ No, sono sazio di dolci e cannella.
⁃ Anch’io, facciamo due passi.
⁃ Ancora? Due e due fanno quattro...
⁃ Imbecille!
Seguirono la strada fino alla darsena della città, in quell’inverno mite e senza memoria. Non ci furono molte parole, ognuno stava con i suoi pensieri. Lungo l’Avenida Marginal, c’era il mare davanti che si muoveva piano, racchiuso nella baia dei pescatori, e poi la spiaggia della Laginha, più là era l’Oceano delle navi e delle tempeste. Più in là. Dietro di loro, la città circondata dai monti aridi, poco verdi per essere a Capo Verde. Va tutto bene, le chiese? Va tutto bene, rispose. Anche i pensieri hanno bisogno di compagnia.
La loro panchina non c’era più, il capitano Alvarez, comandante della polizia, l’aveva fatta togliere perché c’erano successe troppe cose. Il commissario e la panchina sembravano attirare disavventure e delitti. Così passeggiarono lungo il molo, oltre il terminal dei passeggeri, fino al Porto Grande e rimasero seduti sulla banchina a vedere attraccare e salpare i traghetti, uscire i pescherecci verso il mare alto e le acrobazie dei gabbiani urlatori che scendevano in picchiata e risalivano il cielo, portandosi via, in quelle vertigini, pesci e pensieri. E videro il tramonto, oltre la Punta João Ribeiro. Intanto si era fatta sera. Hai fame? Le chiese. Certo, rispose. Praticamente non avevano pranzato. Allora le propose: saliamo da me e ci facciamo uno spaghetto aglio, olio e peperoncino, dovrei avere una bottiglia di San Vicente, il rosato dell’isola di Fogo della cantina di Padre Ottavio. Volentieri, disse Dores.
Stappato il vino, l’acqua a bollire, gli spaghetti bastano? Sì, bastano. L’olio gli arrivava dalla Toscana. Qui lo importano dal Portogallo o dalla Spagna e costa caro. Glielo mandavano suo fratello professore e gli amici rimasti. Un olio extra vergine, saporito e morbido. Morbido come le colline della Valdera. E le vendemmie che si facevano in settembre! Bei tempi. Il sale grosso? Una presa. Una presa? Gli venivano in mente le parole di un amico, un’autorità nell’isola di San Vincenzo, il professor Ubaldo Rio Branco: la civiltà umana nasce non solo con l’acquisizione del pollice opponibile, prerogativa anche di altri primati, ma con la presa di forza e, soprattutto, con la presa di precisione. Tra le prese di precisione, la presa di sale faceva certamente parte del faticoso e difficile cammino di emancipazione della specie. Una presa è sempre meglio di “q.b.” quanto basta, che non si sa mai quanto basti. È un passo avanti. Salò l’acqua. Il peperoncino, sull’isola non c’era problema, bisogna anzi stare attenti al piccante. È giusta di cottura? le chiese. Sì sì, rispose. E di sale? Seguì un silenzio interrotto da una citazione.
⁃ E un giorno queste parole senza rumore/ che teco educammo nutrite/ di stanchezze e di silenzi/ parranno a un fraterno cuore/ sapide di sale greco.
Era troppo salata! Lo sapevo. Fanculo alla presa di precisione e fanculo anche a Montale. Scusi professore, perdono maestro! Ma Dores gli disse che no, stava scherzando, lo stava prendendo in giro. La pasta era saporita, buona, grazie. Bisognava inevitabilmente e amaramente convenire che, oltre alle prese di forza e di precisione, è stato il passaggio alla presa di culo a completare definitivamente l’opera di affermazione e distinzione dalla bestia del genere umano.
Era buio, dal terrazzo si vedevano le luci delle barche ormeggiate e alcune che prendevano il largo. Un po’ di nuvoli si addensavano, il vento li portava, veniva ancora a piovere. Il clima è impazzito! Dores e il commissario restavano lì a contemplare la divinità della notte: erano soli e stavano insieme, erano su un’isola, fermi e fuggitivi, perché ovunque e da tutto si fugge, inquieti e insaziati, portando nel cuore l’amore disperato delle cose. Ma la notte per entrambi fu dolce e passò.
Mentre facevano colazione il commissario chiese se Rafaela viveva con i suoi, se stava con qualcuno.
⁃ Mia sorella sta da sé, in un appartamento di famiglia, nel quartiere Monte, vicino al Tennis Club. Perfetto per lei.
⁃ Perché?
⁃ È maestra di tennis.
Dalla borsa gli porse una foto che la ritraeva in candida tenuta da tennista e, prima di riporla, la guardò a lungo e si capiva che era preoccupata. Devo andare, disse, Rafaela passa in Hotel dai miei, devo controllare la fasciatura. Mi ha detto che è cascata, giocando, si è fatta male al polso destro, per fortuna è mancina. Domattina ha il corso e la sera un torneo. Andiamo a vederla domani sera, mi accompagni? Con piacere. Allora arrivederci commissario, a presto.
Ciao Dores. Il Tênis Clube di Mindelo era in Praça Estrela. Vicino, tutto sommato, anche a casa sua. Così il commissario, l’indomani mattina si alzò presto. Voglio proprio vedere cosa fa questa sorellina. Curiosità di poliziotto. L’Accademia del Tennis “Edu Oliveira” era una struttura sportiva tanto blasonné, quanto negligé, insomma doveva aver conosciuto epoche e fortune migliori. C’erano tre campi da gioco in cemento dal fondo verde, abbastanza ben tenuti e uno probabilmente di riserva o solo di allenamento un po’ più sgarrupato. In fondo la Direzione e, nell’angolo opposto del Centro, c’era un Espaço Verde che dava sui campi, dove si poteva consumare un pasto veloce. Il commissario, dopo un giro distratto di perlustrazione, andò ad appoggiarsi all’albero dell’ingresso. Da lì poteva vedere i tennisti che giocavano, prendendosi a pallate e gli allievi della scuola di tennis che seguivano le istruzioni dei maestri. Riconobbe Rafaela che, insieme ad un istruttore abbronzato e palestrato, faceva ripetere la battuta ai suoi. Poi, per non dare troppo nell’occhio, entrò nel “Ristorante ecologico”, così si reclamizzava. Indicando il menù, ordinò un frullato di roba verde e arancione che sapeva di tutto e di niente e, dandosi un contegno da nutrizionista-bio ed esperto di tennis, si sedette fuori, ad un tavolo dove, sorbendosi il torbone a piccoli sorsi, poteva continuare ad osservare i campi. E Rafaela. Tenuta bianca, carnato scuro, capelli biondo miele. Probabilmente non era il suo colore, ma le stavano bene.
Fu un attimo, forse si distrasse, forse l’ultimo sorso dell’eco-torbone che gli richiese particolare impegno, sentì come una voce, uno screzio sopra il ritmico rimbalzare palloso delle palle da gioco, alzò gli occhi e Rafaela non c’era più. Sul campo erano rimasti solo gli allievi che ripetevano, come ossessi, il servizio. Dove diavolo era finita? Si alzò in fretta, ma cercando di apparire più calmo che poteva, e si guardò in giro. Non era certo sparita e c’era un posto solo dove poteva essere andata, probabilmente in fretta.
La Direzione consisteva in un piccolo ufficio con le coppe impolverate sulle mensole dove sedeva un custode intento alla lettura del giornale. In fondo al corridoio si intravedevano gli spogliatoi e le docce. L’uomo alzò a malapena la testa, distratto, e poi l’affondò di nuovo dentro il quotidiano. Il commissario finse di interessarsi un poco al tabellone del torneo serale, poi infilò la porta degli spogliatoi.
- Afonso, me deixe em paz! Você me machucou! Não há mais amor entre nós. E isso não é amor!
Fragore della doccia. Le racchette erano in terra. Rafaela, seminuda, era piegata, l’istruttore abbronzato e palestrato le era addosso. Le torceva il braccio afferrandole il polso. Non si era fatta male cadendo! Il commissario l’aveva subito sospettato. L’uomo le sussurrava qualcosa tipo, seja minha, ou de ninguém. Il commissario non capiva bene il portoghese e il nerboruto gli era di spalle. Suonava come: o mia, o di nessuno. Rafaela gli gridava di lasciarla in pace, che le faceva male. Che non c’era più amore tra loro. E che quello non era amore! Ma Afonso -così si chiamava- gli stringeva il collo. La presa di forza del primate maschio! Con che fa rima Afonso?
Il diritto a due mani partì veloce e secco, di taglio, smesciato, sulla testa, ma il rovescio che seguì sulla tempia, sempre ad impugnatura bimane, fu devastante. La racchetta di alluminio si piegò, inservibile, come la testa di Afonso che si afflosciò per terra, sanguinante. Il commissario aveva giocato a tennis, da giovane, sulla terra rossa del campo del Villaggio Piaggio. La sua racchetta si chiamava Maxima ed era di legno. Avrebbe fatto più male? Ora quel campo non c’è più, un Sindaco c’ha fatto un parcheggio per gli operai della Piaggio. Porse un asciugamano a Rafaela perché si coprisse. Era scossa, rannicchiata sulla panca, piangeva, chiedeva quem és tu? Chi sei? Capisci l’italiano, le chiese? Fece sì con la testa.
- Rafaela, ascolta, chiamo l’ambulanza o la polizia?
- Il commissario italiano, l’amico di Dores!!! Le chiami entrambe.
Bene, pensò il commissario, la ragazza è a posto. Determinata. Mise un dito sul collo dell’energumeno: il cuore, piano, ma batteva ancora. Allora chiamò il comandante Alvarez: che venisse o mandasse qualcuno e facesse venire subito un’ambulanza. Una donna è stata aggredita, l’aggressore è a terra, poi ti spiego. Dall’altro capo del cellulare gli parve di sentire prima come un respiro di sollievo e, a seguire, un’imprecazione in lingua creola rivolta al suo indirizzo che il commissario non capì o fece finta di non capire.
Al Comando di Polizia, Alvarez dietro la scrivania ascoltava il commissario, ringraziandolo e mettendolo in guardia per l’ennesima volta dal cacciarsi in pericolo. Erano amici ormai e il capitano conosceva l’italiano.
- In pericolo era la donna, capitano. Rafaela. In serio pericolo e penso che si fosse cacciata in una brutta storia con quell’Afonso o come diavolo si chiama.
- Il bellimbusto è già noto negli ambienti della Polizia: cocaina, stalking soprattutto a carico di donne benestanti, purtroppo finora nessuna denuncia circostanziata e l’ha sempre fatta franca, l’impunito. Anche stavolta, temo, negherà, denuncerà, anzi, di essere stato aggredito. Trovati un buon avvocato, commissario.
- A proposito, come sta l’aggressore?
- Commozione cerebrale, è in ospedale. Se la caverà.
- Ok. Dammi un secondo.
Il commissario prese ad armeggiare con il cellulare e si vedeva che non ci sapeva andare se non per il minimo sindacale. Però qualcosa sapeva fare anche lui. Il cellulare di Alvarez vibrò sulla scrivania. Il capitano lo consultò: c’erano due foto inequivocabili dell’aggressione che il commissario aveva preso, prima di colpire. Almeno a questo servono questi aggeggi infernali, disse, e Alvarez annuì.
- Resta a disposizione, dovrai testimoniare, la signora ha sporto denuncia.
- Dovere.
- Stai lontano dai guai, mi raccomando, per quelli ci siamo noi.
- Lo so. Farò il possibile, grazie.
Una stretta di mano, un abbraccio impacciato, come si fa fra uomini, un saluto, militare, più ironico che formale, e si congedarono.
Taverna São Vicente, davanti al Porto, una traversa tra Viale Marginal e Viale 5 Luglio: “Avenida”, si dice qui, che forse è più evocativo di “Viale”. Cucina italiana. Una volta ogni tanto bisogna onorare la patria gastronomica. Si può mangiare una pizza o una classica carbonara, fuori, sotto la veranda. Ma anche dentro si sta bene. Che dici, Dores? Va bene fuori, Nedo. Le rare volte che lei lo chiamava per nome e non commissario, lui non sapeva se era una forma di affetto o di avviso. Mangiarono in silenzio, poi presero un gelato al Cremosito, lì accanto, e Dores gli raccontò. Rafaela, si era cacciata in una brutta storia con quell’Afonso, collega e stronzo. Un amore sbagliato, sesso, fumo e qualche tiro di coca, foto proibite prese a sua insaputa, violenza, ricatti. Ecco perché appariva incupita, depressa, da allegra e gioviale che era. Aveva deciso di uscirne e quell’energumeno glielo impediva con minacce e con la forza. Avrebbe voluto denunciarlo, ma non si decideva. Per questo veniva a casa, da me, ma quando sembrava volesse dirmi qualcosa, glissava fatalmente, come suo solito. Solo ora mi ha detto tutto.
- Quel che mi rode, commissario, è che non sono stata io, non siamo state noi. C’è stato bisogno che tu risolvessi questa storia, come se fosse un caso. La solita storia del cavaliere che salva la fanciulla indifesa, cazzo!
- Mi dispiace Dores, ho fatto del mio meglio, che altro potevo fare?
- Non lo so, forse mi dovevi chiamare.
- Ma non c’è stato tempo, è stato tutto improvviso e mi ci sono trovato dentro. Come sta tua sorella?
- È triste, molto giù, mi ha detto di ringraziarti e che appena starà meglio lo farà di persona. Mi preoccupa che canta tutto il giorno “Gracias a la vida”, sorride e piange.
- È una bella canzone, per quel che ricordo.
- È una canzone stupenda, un inno alla vita, all’amore, alla solidarietà, ma ha una storia tragica.
E gli spiegò che conosciamo quella canzone per l’esecuzione di Mercedes Sosa e di Joan Baez. La voce di Mercedes Sosa è potente, l’interpretazione di Joan Baez incalzante. Senza dimenticare la versione di Gabriella Ferri. Ma l’autrice della canzone è cilena, Violeta Parra, e la sua esecuzione è la più struggente. Forse la più vera. Dopo una vita inquieta, di lotta e di ricerca, di musica e di arte, dopo due matrimoni falliti, figli e un ultimo amore finito, dopo aver cantato sul palco “Gracias a la vida” un’ultima volta, Violeta Parra, si sedette nella sua tenda, su una piccola sedia costruitale apposta da una fan -lei era alta poco più di un metro e cinquanta- e, devastata dalla depressione, si uccise con un colpo di pistola alla tempia. Aveva 49 anni. Era il 1967.
Bisogna ascoltarla e leggerla quella canzone, commissario: “Grazie alla vita che mi ha dato tanto, mi ha dato il cuore che agita il suo battito quando osservo il frutto dell’intelletto umano, quando guardo il bene così lontano dal male, quando guardo il fondo dei tuoi occhi chiari”. Violeta Parra diceva che nella sua vita le era toccato tutto molto secco e troppo salato, ma che questa in fondo era la vita: una rissa in cui non si capisce niente. Sentiva che l’inverno si era installato in fondo alla sua anima e cominciava a dubitare che da qualche parte ci fosse la primavera. Si può amare a tal punto la vita ed esserne sopraffatti e disperatamente porvi fine. Puoi capirlo questo, commissario?
Nel 1967 in Cile c’era Frey, dopo fu eletto Allende, poi il colpo di Stato e Pinochet. Furono ancora tempi di fascismi, dittature, eccidi, non solo in Cile. Il ‘68 era esploso e passato. Anni dopo, regimi caddero, incalzati dai movimenti di liberazione. C’è stato un dopo e c’era un prima. E quel prima non può essere dimenticato: Violeta Parra ne faceva e ne fa ancora parte. Nonostante la musica andina che noia mortale, che vabbè… Ma io mi commuovo ancora quando Mercedes Sosa intona “Cambia, todo cambia” e migliaia di persone la cantano con lei. I tempi d’oggi non sono migliori, né meno controversi o violenti, difficile distinguere con chiarezza il bene dal male, la felicità dal dolore e sentire il nostro canto come il canto di tutti. Riconoscere nel vocabolario la bellezza delle parole che si pensano e si dichiarano: madre, amico, fratello e luce che splende. Riconoscere tra la folla chi si ama, la sua voce, la sua strada, la sua casa e il suo patio, il percorso della sua anima.
- Gracias a la vida, commissario. Fin su queste isole arriva della vita il doloroso amore che affligge Rafaela e agita ognuno di noi. Nella furia, nella violenza del tempo e degli uomini, invoco una presa di coscienza, cerco un amore mite, come l’inverno a queste latitudini.
- Grazie a te, Dores che mi fai compagnia, quando ci sei e ancor più quando manchi. Almeno anch’io fossi così per te…Poi sono contento perché per una volta hai citato Saba e non Montale.
- Sei un cretino.
- Meglio che imbecille.
Sì, decisamente meglio, convenne Dores. E c’era la sera sul golfo, un po’ di luci che si accendevano e decise che un bacio il commissario alla fine se l’era meritato. Lo strinse a sé, gli ripeté che era un cretino, a scanso di equivoci, e lo baciò.
Marco Celati
Pontedera, Dicembre 2023
________________________
P.S. A proposito, gli disse, buon Natale commissario. Ah già, buon Natale Dores!
E buon Natale a tutti i lettori di buona volontà. Nel racconto ci sono diversi riferimenti e alcuni sono minuti e voluti. La ballatetta di Guido Cavalcanti, Pavese da “Ascolteremo nella calma stanca”, Luzi, Saba e Montale per amore o per forza, perfino quel pochissimo che ho letto e capito di Lucrezio e delle “Memorie di Adriano” della Yourcenar. E altro. Grazie anche all’amico scrittore, il professor Dino Fiumalbi, che alla presentazione del suo libro, con le annotazioni sulla presa di forza e di precisione, mi ha dato il destro e anche il sinistro per questa storia. Per il portoghese creolo capoverdiano mi sono avvalso della consulenza dell’ottimo Marco Abbondanza, direttore del Festival Sete Sóis Sete Luas. Alla fine solo il commissario Favati, che se ne dispiace, è una mia creatura, farina del mio sacco. Nella foto, Violeta Parra: gracias.
“Jardin d’hiver”, Henri Salvador
“Gracias a la vida”, Violeta Parra
https://youtu.be/Y5KZSlUxBi8?si=epIB0Sr6Dj9IgOa-
“Gracias a la vida”, Mercedes Sosa y Joan Baez, sottotitolata in italiano
https://youtu.be/JO7G1v-6Gg4?si=ZV5A1jFM8TABaMmJ
“Todo cambia”, Mercedes Sosa, sottotitoli in italiano
https://youtu.be/_erZOIFrym0?si=FjuquYeJ_VdvKwWm
Marco Celati